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Maria Marchese

Scrittrice 

La Rambla delle sirene

Sbaglio strada e sono in un film. Credevo che la viuzza che avevo imboccato dal Passeig de Colom, nei pressi del porto, mi avrebbe portata su un tratto di Rambla più vicino a casa mia.

Invece mi ritrovo a poca distanza dal monumento a Cristoforo Colombo, quindi mi toccano almeno dieci minuti di cammino, da percorrere tra le sirene. E non mi riferisco ai mostri mitologici, ma alle volanti che scendono in picchiata. E dire che me le aveva annunciate pure l’elicottero della polizia, che ronza da un po’ sul centro storico: tre o quattro camionette della Policía Nacional si precipitano giù per la Rambla da Plaça Catalunya. Poi imboccano sparate (e in controsenso?) lo storico carrer de Ferran: la prima strada di Barcellona ad aver esibito delle vetrine, ma anche quella che ancora oggi collega la Rambla alla Plaça Sant Jaume. Lì si fronteggiano il Comune e il Palau de la Generalitat: l’amministrazione locale di Ada Colau e quella della Província Autònoma, fresca di elezioni (hanno prevalso i partiti indipendentisti, ma sarà complicato governare). Che mi convenga addirittura seguire le sirene? No, perché la Guardia Urbana è meno rumorosa della polizia nazionale, ma proprio una vettura di questo corpo finalizzato a mantenere l’ordine pubblico si pianta di traverso sulla Rambla, e all’improvviso sento esplodere delle urla, dal vivo e in radiolina. Che gli agenti litighino tra loro? O parlano con qualcuno nella strada semideserta, illuminata appena dai lampioni modernisti? Non lo so, ma sta’ a vedere che la situazione si complicherà man mano che provo a risalire verso Plaça Catalunya. E dire che questa doveva essere una serata qualunque, un mercoledì 17 febbraio che preannunciava tepori primaverili. Cosa può essere successo per giustificare questo spiegamento di forze?

Stordita dalla paura e dal fracasso mi accorgo di non saperlo, e invece dovrei: è il secondo giorno di manifestazioni in tutto lo Stato spagnolo, per l’arresto del trentatreenne Pablo Hasél. Lunedì 15, il rapper catalano è stato condannato a nove mesi di reclusione dalla Audiencia Nacional: un tribunale di origine franchista che è preposto a giudicare reati politici, ed è un’anomalia in Europa. L’accusa è di ingiurie alla corona e istigazione al terrorismo (Hasél denigrava i Borbone nei suoi testi, e inneggiava nei social a gruppi terroristici ormai inattivi, come l’ETA). Tuttavia, alcune condanne accumulate in precedenza potrebbero comminargli fino a sette anni e mezzo dietro le sbarre. Hasél, al secolo Pablo Rivadulla Duró, non si è consegnato alle autorità come gli era stato ordinato di fare, e si è confinato nel rettorato dell’università della nativa Lleida, con l’appoggio di centinaia di persone che gli hanno dato manforte. Il condannato è riuscito a rimanere asserragliato nell’ateneo fino a martedì mattina, quando i Mossos d’Esquadra, gli agenti della polizia catalana, hanno fatto irruzione e lo hanno arrestato. 

Per tutta risposta, quello stesso martedì sera sono state organizzate manifestazioni in 58 città catalane: solo a Barcellona avrebbero partecipato in 1700 per la Guardia Urbana, e 5000 per i movimenti. Il commissariato di Vic è stato dato alle fiamme. Quella prima notte ha annoverato almeno 18 fermati e 33 feriti in tutta la Catalogna. Una ragazza ha perso l’occhio per un proiettile ad aria compressa: non è affatto una novità, come testimonia l’associazione Stop Bales De Goma, fondata nel 2011 dal molisano Nicola Tanno. 

Ecco dove ho peccato di ingenuità, mi rendo conto mentre, passando in fretta tra le transenne sistemate in Plaça Sant Jaume, ricevo delucidazioni via chat dal mio attivista di fiducia. Pensavo davvero che gli scontri sarebbero stati limitati al giorno della detenzione di Hasél? Macché: è stata convocata una nuova manifestazione a Jardinets de Gràcia, dunque all’altro capo della strada dove si avvicendano i negozi di lusso, e a svariati chilometri rispetto a dove mi trovo ora. “Beh” informo l’amico “ti assicuro che adesso la gente che si è riunita ai Jardinets o è già qui in centro, o sta arrivando”. 


Le proteste sono nate perlopiù in circuiti indipendentisti che mi lambiscono appena, con la segretezza che ha dovuto assumere quel genere di attivismo dopo il referendum del 2017, e i suoi strascichi politici. Ma anche nel Gobierno de España, scoprirò poi, lo scontro è aspro: Pedro Sánchez dichiarerà di lì a qualche giorno che “La violenza è il contrario della democrazia, e la negazione della stessa”. Una dichiarazione che vuole colpire le invocazioni alla libertà d’espressione dell’alleato Podemos, e che vuole rassicurare quella parte della popolazione indignata per il “rogo di bidoni”, ormai un simbolo della protesta che genera perfino invenzioni satiriche. Infatti, mentre una camionetta della polizia piazzata accanto al palazzo della Generalitat mi sbarra la strada di casa, un vicino scozzese mi manda un meme: il disegno di un cassonetto della differenziata in lacrime, firmato in catalano da una fantomatica “associazione degli amici dei bidoni”. Il vicino, che beato lui sarà già al sicuro, commenta: “Un’altra notte di massacri!”, con tanto di emoticon di fiamme e faccine piangenti.


Non ho tempo per sorridere. So che per molta gente a sinistra, in quella terra di scontri continui, detronizzare i Borbone non è una priorità, e mi viene da pensare alle parole dello stesso Hasél su Juan Carlos I in “Muerte a los Borbones”: secondo il rapper, l’ex sovrano, non ha affatto salvato la democrazia come raccontano ai bambini, ma ha fatto ciò che più conveniva al suo conto in banca, lustrando il “pugnale” di Franco per troppi anni (Vuelvo a desmontar este cuento para niños que “el rey puso freno al fascismo” / El rey hizo lo que más convenía a su cuenta bancaria / y limpió el sable a Franco durante demasiado años). 


Alla fine riesco a farmi strada tra i pochi pendolari che imboccano la metro Jaume I, e a contemplare il misto di tensione e indifferenza che Barcellona offre in situazioni del genere: la Guardia Urbana scorrazza in moto tra coppiette che mangiano su una panchina, mentre degli agenti nazionali scansano, stavolta in una semplice auto, chi rincasa sulla centrale via Laietana, che “ospita” il quartier generale della Policía Nacional. La strada è chiusa al traffico per l’occasione, ma come ogni sera, man mano che si avvicina il coprifuoco delle 22.00, si trasforma a poco a poco in una pista ciclabile per i runner di Glovo, Just Eat, Telepizza, che sembrano diventare gli unici abitanti della città. Ne fotografo proprio uno in primo piano, la mascherina abbassata com’è permesso fare ai ciclisti, mentre per uno scherzo dell’obiettivo sembra scendere scortato da un codazzo di gente: è la manifestazione. Ormai ha imboccato via Laietana e comincia a rovinare giù, illuminata in coda dal blu delle sirene.


Quando riesco a entrare nella mia strada, costeggiando il lussuoso Hotel Ohla, passo accanto a tre ragazzi molto giovani, ansiosi di raggiungere il resto della folla. Sono diversi dai gruppetti di ragazzini senza striscioni o slogan da gridare, che sempre più spesso vedo scorrazzare durante le scaramucce con la polizia che scoppiano nella mia strada. L’amico attivista insiste a dire che tanti degli adolescenti che costruiscono barricate sono politicizzati, e gli credo: ma dopo tanti anni, così come ho imparato a non fidarmi di chi riduce un intero movimento a dei bidoni bruciati, ho pure provato a individuare con più o meno successo chi a quel movimento partecipa davvero, e chi è lì per lanciare falsi allarmi (“¡Corre, loco!”) e divertirsi a vedere gli altri scappare via senza motivo. L’ho visto fare il 18 ottobre 2019, giorno dello sciopero generale in Catalogna, mentre provavo a guadagnare il portone di casa tra i lacrimogeni della tardor calenta (“autunno caldo” in catalano).


Questa sera, invece, i tre ragazzi che vanno in direzione contraria alla mia si lasciano affascinare un momento dagli arabeschi futuristi nella sala da pranzo dell’hotel, situata sotto il livello della strada: al di là dei finestroni stanno cenando poche persone, che non arrivano a riempire i già pochi tavolini consentiti dalle restrizioni per il Covid. Uno dei ragazzi grida: “A comer, pijos!”, che è un po’ come dire: “Mangiate pure, fighetti!”.


Prima di correre a mangiare anch’io, indifferente al fuggi fuggi dei primi falsi inseguimenti, getto a mia volta un’occhiata alla sala dell’hotel.



In effetti, quei bei ragazzi che intravedo lì dentro, camicia aperta al terzo bottone e capello spazzolato ad arte, stanno mangiando incuranti di quelle offese così vicine e così lontane. Forse non si sono neanche resi conto del frastuono dell’elicottero, delle scarpe che sfilano a passo svelto davanti ai finestroni, e di me che metto una croce sopra all’agognato burger da asporto e vado a scaldarmi gli avanzi del pranzo.

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