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La copertina è tratta da Palestina. Una nazione occupata opera di Joe Sacco fumettista e giornalista.



Giancarlo Marino scrittore

Racconti Resistenti - La strada

Il nonno era andato fino al limite orientale della città per costruire la nostra casa. Aveva acquistato un lotto di terreno nella via più lontana, quella meglio esposta a sud. La scelta era dovuta alla prossimità con la campagna: la palazzina fu eretta al margine dei canali di irrigazione per i campi.
E così nostra madre e i suoi fratelli erano cresciuti giocando a saltare tra i terrapieni umidi, al riparo dal deserto pietroso che separava la città dalle montagne. 
Quando nostra madre aveva sposato Omar, l’uomo venuto da lontano, quello che era nato sulla costa, c’era stata una grande festa: la luce inondava la strada dove le palazzine crescevano come alti cedri. Nostro padre prese in moglie la più florida delle figlie del nonno e quell’unione diede frutti fertili come i campi che il nonno aveva seminato. 
Nascemmo, pascemmo e crescemmo forti come lui e abili come nostro padre, e con noi la strada si espanse: attorno furono edificati negozi e case che ne tenevano il passo ai lati, mentre un lungo braccio di cemento collegò il quartiere alla tangenziale, e così al resto della città.
Nostro padre ci aveva raccontato di quello che era accaduto nel suo luogo d’origine, in riva al mare, tutti nella strada ne erano al corrente, ma nessuno aveva mai dato credito a quelle storie, o magari non ci volevano semplicemente pensare: non aveva forse, il nonno, scelto questa strada così lontana dalla città e dalle sue luci abbaglianti che illuminavano la notte e spegnevano le stelle proprio per questo?
Nonostante i negozi – la pasticceria, lo spaccio di Ibrahim che vendeva un po’ di tutto dal tabacco alle schede telefoniche per chiamare i parenti lontani, il distributore di carburante, il forno in cui la nonna, Allah l’abbia in gloria, andava a cuocere il pane prima che il nonno gliene regalasse uno a gas – tra le case della strada, ogni giorno, fluiva la luce e noi giocavamo al pallone tra le poche auto parcheggiate, finché una delle nostre madri non ci sorprendeva e ci accompagnava fino alla fermata dell’autobus che ci avrebbe portato a scuola. Quando l’autobus ci riconduceva lì già imbruniva, ma i marciapiedi della strada mantenevano il calore della luce diurna. Anche in piena notte, sapevamo di poterci fidare della strada, perché era la nostra. Era casa.
Non ricordiamo esattamente come iniziò ma forse fu in pasticceria. Doveva essere inverno perché, nonostante fosse di buon mattino, quando, per prendere la corriera, passammo davanti all’esercizio di prelibatezze di Mohamed, ci accorgemmo che la vetrina era buia. Ci sembra di ricordare, ma ormai non possiamo esserne sicuri, che Fatima desiderasse un ma’moul, era da poco finito il Ramadan, ma scegliere tra le paste che di solito adornavano i ripiani come gli arabeschi torniti della moschea in centro fu impossibile: non si vedeva niente. Non capivamo neppure se Mohamed avesse aperto il negozio quella mattina. Alzammo le spalle e ci avviammo alla fermata del bus. 
Non so se ce ne avvedemmo già al ritorno, ma di certo il giorno dopo ci accorgemmo che il buio era aumentato. Non solo la vetrina, ma la porta, gli infissi, il campanello che squillava ogni volta che entravamo lasciando uscire un odore forte di fiori d’arancio, l’insegna محمد ديلايتس – muhamad dilayitis, persino il vecchio muro screpolato era stato inghiottito dall’oscurità.
Ci allarmammo e corremmo in fondo alla strada, dove c’era la nostra casa e nostra madre. La trovammo in cucina a preparare il mansaf con il nonno seduto nella camera accanto che farfugliava qualcosa agitato. Lì per lì non capimmo di cosa stesse parlando né ci volle dire di più, si limitò a sacramentare ad Allah misericordioso e si chiuse in un silenzio che fu reso sopportabile dalle rassicurazioni di nostra madre. Doveva essersi trattato di un guasto al sistema elettrico, magari qualcosa si era inceppato nei macchinari del laboratorio di pasticceria, oppure Mohamed si era confuso e non aveva aperto perché pensava fosse venerdì. Noi credevamo sempre a quel che diceva nostra madre ma Abdel, che aveva già quindici anni pieni di testardaggine, scuoteva la testa. Tutto questo poteva essere vero ma non spiegava mica perché l’intero palazzo della pasticceria, in pieno pomeriggio, fosse avvolto nel buio più assoluto. Il nonno a questo punto si ritirò nella sua camera. Avremmo voluto chiedere il parere di nostro padre, ma la mamma ci impedì di attendere che tornasse dal lavoro, impiegava sempre molto a tornare dalla città, e ultimata la cena, ci mandò subito a letto. Abdel protestò per un po’ ma alla fine fu costretto ad andare a dormire anche lui. 
Fu il giorno dopo che notammo come il buio si fosse espanso: adesso non inglobava solo il negozio di Mohamed, ma a essere celato era anche un bel pezzo di marciapiede. L’oscurità lambiva la strada fin quasi alla pensilina della fermata e così dovemmo accalcarci in pochi metri quadri per prendere l’autobus. Salimmo sul predellino in una fila contratta, mentre gli automobilisti sacramentavano per l’occupazione della loro carreggiata, strombazzando con i fischi dei clacson. Ma il disagio provato fu nulla rispetto a quel che capitò al ritorno: un’intera corsia di marcia era stata fagocitata dal buio e l’autobus arrancò per diversi minuti dato che il traffico avanzava su un senso unico alternato. Quando arrivammo all’altezza della fermata, vedemmo che quella di rimpetto, nel senso opposto, insomma quella che avevamo preso la mattina per andare a scuola, semplicemente non c’era più. Sotto la pensilina si riusciva giusto a scorgere qualcosa disteso per terra. Anzi era qualcuno, ci fece notare Fatima, era il corpo di Mohamed. Dovemmo mettere a fuoco per riconoscere tra tutta quella nebbia cinerina mischiata alla porpora del sangue il volto non più sorridente di tutte le nostre colazioni.
A casa, oltre al nonno e alla mamma, trovammo anche nostro padre ad aspettarci.
Dobbiamo dirvi qualcosa, principiò la mamma. No, no, protestò il nonno, ma fu nostro padre Omar che veniva dal mare a tacitarlo con un gesto della mano. Eravamo abbastanza grandi per sapere. Persino Fatima.
Era certo che sarebbe arrivata anche qui ma non pensavamo così presto, cominciò, l’ombra è giunta nella nostra strada.
A quelle parole il nonno prese a piangere. 
La mamma ci spiegò che suo padre aveva scelto di costruire lì la nostra casa perché pensava che stando il più possibile lontano dalla città, l’ombra non ci avrebbe raggiunti mai, ma ora che Mohamed era morto, e il fatto era noto a tutti nella strada, non potevamo restare all’oscuro di quel che si trattava. Nell’ultimo anno più di 170 persone erano state prese dall’ombra: in città si diceva che ne fossero morte cinquanta in soli tre giorni, addirittura dieci in una sola notte. Erano vent’anni, ci disse Omar, che non ne prendeva così tanti, dai tempi in cui lui si era dovuto rifugiare qui, nell’interno, ai margini del deserto.
Fatima tremava, Abdel invece era furioso: non si poteva fare nulla per fermarla? Bisognava organizzarsi, ribellarsi, colpire lei prima che lei tornasse a colpire noi. Un suo compagno di scuola gli aveva raccontato che in centro un uomo si era fatto esplodere proprio nel mezzo dell’ombra più profonda e con la luce dell’esplosione se n’era portato via un bel pezzo.
Nostro padre cercò di calmarlo, spiegandogli come fosse una lotta impari, come l’ombra non si limitasse a colpire le singole persone ma oscurasse via ogni cosa. Abdel scosse la testa e se ne tornò in camera sua. Quel che Omar venuto dal mare volesse dirci lo comprendemmo soltanto il giorno dopo.
Altre due palazzine erano state inghiottite dall’ombra: si trovavano lontano dalla pasticceria ma in una ci abitava Mohamed con la madre e il fratello, in un’altra la numerosa famiglia dei cugini del pasticcere.
Quel giorno non potemmo raggiungere la scuola: troppo ristretta si era fatta la strada per non rischiare di essere divorati dall’ombra e poi probabilmente l’autobus non sarebbe arrivato a prenderci: nostro padre ci disse che anche nella sua città l’ombra, per prima, s’era portata via i trasporti.
Quella mattina stessa, gli abitanti della strada si radunarono nello spiazzo cementificato che divideva la nostra casa dal deserto. Nelle belle giornate veniva usato per le preghiere, e durante le festività si teneva il mercato. Stavolta era stata montata una piccola pedana. Il primo a salire fu Ibrahim, il proprietario dello spaccio, un vecchio che nonostante avesse l’età di nostro nonno continuava a lavorare ogni giorno nel “primo negozio che aveva aperto nella strada”.
Il vecchio negoziante asserì che l’ombra aveva preso la strada perché Mohamed, Allah lo maledica, aveva simpatie con non meglio identificati facinorosi e che quindi quella non era altro che una punizione collettiva, che infatti era stata comminata non solo a lui ma a tutti i suoi familiari. E nel dirlo indicò i parenti del pasticcere, una dozzina tra cugini e nipoti, che se ne stava in un cantuccio con le poche cose che erano riuscite a portar via dalle loro case prima che fossero avvolte dall’ombra.
Molti rumoreggiarono, qualcuno a mezza voce concordò sul fatto che Mohamed se la fosse cercata, altri invece invocarono la pietà di Allah nei confronti di tutti loro. Per calmare gli animi fu chiamato qualcuno che già aveva conoscenza dell’ombra, qualcuno che sapeva cosa stesse per accadere. Omar venuto dal mare prese la parola.
Nostro padre spiegò come in meno di un anno l’ombra avesse inghiottito più di diciottomila case della sua città, e come tutti coloro che si erano opposti erano stati uccisi.
«Bisogna fare qualcosa, non è giusto».
Era stato Abdel a gridare. 
Nostro padre cercò di metterci in guardia dal provocare l’ombra, ammonendoci che la sua ritorsione non avrebbe tardato a manifestarsi potente come un jinn adirato. Ma pochi lo presero sul serio, i vicini cominciarono ad accusarsi gli uni con gli altri, qualcuno gridò che ben gli stava a Mohamed perché i suoi prezzi era troppo alti, uno dei cugini rispose agli insulti. Il vecchio Ibrahim, aiutato da nostro padre e da pochi altri cercò di ripristinare la calma. Alla fine l’assemblea fu sciolta senza alcuna deliberazione.
La sera stessa comprendemmo la portata di quell’ira: nonostante il calore delle giornate, le luci restarono spente. L’ombra aveva inghiottito il sistema che forniva energia elettrica alla strada. Ibrahim distribuì ceri e torce dallo spaccio: ma non avremmo resistito a lungo.
Dopo un altro paio di giorni ormai nessuno si azzardava a uscire in strada: anche le forniture di gas finirono e le donne, compresa nostra madre, dovettero fare una lunga fila al vecchio forno per cuocere il pane.
L’ombra evidentemente sapeva quel che accadeva lungo la strada e così la mattina dopo scoprimmo che era toccato al forno, al suo posto un nulla buio e pesto. Del fornaio e della sua famiglia non vi era traccia.
Tra gli abitanti della strada cominciò a diffondersi il sospetto che qualcuno favorisse l’ombra, che gli dicesse dove colpire, a quali obiettivi mirare, quali persone, case ed esercizi fare sparire. 
Fu indetta una nuova assemblea. Ibrahim comunicò che più del sessanta percento della strada era ormai preda dell’ombra. I morti ammontavano già a otto persone, i dispersi più di venti. Bisognava fare qualcosa. Alcuni proposero di andar via, di scappare, altri, invece, di avventurarsi incontro al buio che avanzava a ogni ora di più. Avevano sentito che lì dentro si potesse vivere, che c’era lavoro, che chi era rimasto sulla costa avrebbe potuto testimoniarlo. Nostro nonno piangeva tenendosi le tempie, nostro padre si stringeva nelle spalle. Abdel scuoteva la testa infuriato. Lui e altri giovani non volevano piegarsi alla vita senza luce. La riunione, ancora una volta, non portò a nulla.
Una settimana dopo ogni esercizio nella strada era stato chiuso. La tangenziale era ormai avvolta nell’ombra e ogni collegamento con la città impossibile. L’oscurità aveva inghiottito i canali di irrigazione, prosciugando i campi e le scorte d’acqua. Chi era rimasto si era radunato nel piazzale accanto alla nostra casa. Fu allora che scoppiò la rivolta.
Una dozzina di giovani uomini guidati da Farouk, un camionista che era rimasto bloccato nella strada con l’autocisterna che avrebbe dovuto rifornire il distributore di carburante, si armò di pietre, fionde, e qualche molotov rudimentale fatta con le bottiglie di Arak che Ibrahim aveva messo in salvo prima che anche lo spaccio fosse perduto.
Tra di loro c’era anche Abdel. Partirono nottetempo, quando lo seppe mio padre, lo vedemmo lanciarsi nell’ombra dove una volta c’era lo svincolo della tangenziale. Farouk e gli altri avevano scelto quell’obiettivo perché lì il buio era più profondo. 
Noi volevamo seguire nostro padre ma nostra madre ce lo impedì, questo, però, non ci precluse di vedere quale fu la sorte di Abdel e degli altri. Udimmo gli scoppi delle molotov seguiti da un fischio intenso che parve sfrangiarsi in mille rivoli, ognuno di essi inseguiva un lampo di luce bianca. Vedemmo quelle luci esplodere direttamente dal buio, come un’unica corolla di un fiore mortale. 
Nostro padre piangeva quando tornò con il corpo di Abdel: disse che lo aveva raccolto ai margini dell’ombra. Doveva essere stato eiettato dalla forza d’urto dell’esplosione.
Abdel aveva i vestiti lacerati e la pelle gonfia e ustionata. Dalle bolle giallastre promanava un fetore di aglio marcio. Omar lo reggeva con circospezione, tenendolo per i capelli bruciati e le toppe del pantalone attaccate ai polpacci. Lo ripose alla fine del piazzale lì dove comincia il deserto. Il nonno pianse intonando una preghiera, mentre l’aria bruciava le ultime tracce di fosforo bianco sul volto di nostro fratello scarnificandolo fino al cranio. Nostra madre ci abbracciò mentre Omar seppelliva ciò che era rimasto di Abdel nel terreno pietroso. All’alba ci guardammo indietro, verso la strada, e non vedemmo più nulla. Quel giorno stesso partimmo verso le montagne. 
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