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Antonio Gregorio

Attivista politico

Cronaca di una democrazia in crisi di nervi.

Era il 2016 quando gli USA scelsero come loro Presidente il repubblicano Donald Trump malgrado i sondaggi gli assegnassero solo il 15% di chance di vittoria contro l’85% pronosticato a favore della sua avversaria democratica Hilary Clinton. 
Alle ore 02,29 del mattino ore americane del 9 Novembre 2016 l’immagine di Donald Trump veniva proiettata sull’Empire State Building di New York.
Donald Trump, businessman miliardario nel settore edilizio, baluardo del “sogno americano”, costantemente al centro di gossip e di vari scandali, accusato di molestie perpetrate a danno di molteplici donne tra modelle ed ex collaboratrici, diventa Presidente. 
Diventa Presidente degli USA un uomo arrogante e narcisista, un sostenitore del suprematismo bianco, coinvolto in scomodi rapporti con i membri del KKK, l’iniziatore del muro che divide gli Stati Uniti d’America dal Messico, il promotore dell’inasprimento delle leggi sull’immigrazione e dell’annullamento del cosiddetto “Obama Care” ovvero della riforma del sistema sanitario pubblico voluto dal già Presidente Obama. Sostanzialmente, a capo degli USA viene eletto il capo del sovranismo populista mondiale che annovera tra gli altri Bolsonaro in Brasile, Orban in Ungheria, la Le Pen in Francia, Baudet in Olanda e alla coppia Salvini-Meloni in Italia.
La domanda da porsi sarebbe come è possibile che negli USA abbia potuto vincere un personaggio tanto discusso e soprattutto la sua idea politica. 
Ebbene, bisogna sottolineare che la vittoria di Donald Trump è il risultato del senso di smarrimento che ha afflitto la gran parte dei cittadini americani, soprattutto di quella middle class che ha subito gli effetti più feroci della crisi economica e della perdita di prestigio degli USA. Trump per costoro ha rappresentato una rottura con la classe dirigente (sia democratica che repubblicana)che negli anni non aveva garantito più una proposta politica forte e credibile. Tanto più che la sua avversaria Hilary Clinton era accusata insieme al resto del partito democratico di avere truccato i voti delle primarie per non permettere la vittoria del candidato più radicale Bernie Sanders. Lo scollamento tra la base democratica e la leadership del partito favorì senz’altro la vittoria di Trump perché entrò nella mente e nel cuore dell’elettorato democratico un profondo senso di apatia, sostenuto anche da motivazioni programmatiche. 
Cosa è cambiato in questi quattro anni che hanno caratterizzato la presidenza di Trump?
Poco o niente. Sia l’atteggiamento degli elettori americani sia la proposta politica è rimasta la stessa.
Biden è molto più simile alla Clinton che a Sanders. 
Trump è semplicemente lo stesso candidato di quattro anni prima, però più forte, più convinto, più addentrato negli ingranaggi del potere, più radicale nei contenuti e più radicato nella destra più feroce. 
La sua sconfitta sostanzialmente per questo, per questo esacerbarsi dei toni e delle posizioni, lo ha reso protagonista degli innumerevoli autoproclami di vittoria, delle accuse di irregolarità rivolte ai democratici, dell’esborso di milioni di dollari spesi inutilmente per il riconteggio in Georgia.
Trump, alla fine, risulta votato da oltre settantatre milioni di elettori (47,3%) arrivando a conquistare 232 grandi elettori. Insufficienti. La vittoria arride a Biden e Trump fomenta la rabbia di quella parte di suoi sostenitori indottrinati a credere di essere stati ingannati e derubati della propria sovranità elettorale.
Le conseguenze le conosciamo, risalgono allo scorso 6 Gennaio 2021 quando Capitol Hill è stata assediata e gli accadimenti sono sfociati nell’assalto al Campidoglio e nell’irruzione nell’aula del Senato.
Trump, dopo vaghi appelli ai suoi sostenitori, si è ritrovato isolato dentro il partito repubblicano e silenziato dai social network Facebook e Twitter. Ora è stata avviata contro di lui anche la seconda procedura di impeachment del suo mandato dopo quella relativa all’Ucrainagate.
A Joe Biden, che andrà a insediarsi alla Casa Bianca il prossimo 20 Gennaio, è assegnato il compito di rimettere insieme i pezzi di una realtà profondamente divisa dagli effetti delle politiche estremiste di Trump, dagli effetti della pandemia – che è giusto ricordare che conta allo scorso dicembre 15,1 milioni di contagi e 286 mila decessi –, dalla più profonda mancanza di politiche sociali mirate a ridurre lo strappo tra rappresentanza e classi sociali. Biden dovrebbe quindi agire per attuare riforme sanitarie che rendano gratuite le cure per ogni cittadino americano, per affrontare le cause della vera povertà e proporre nuove leggi per la tutela ambientale, per proporre riforme che contrastino in modo concreto la libera vendita delle armi e che pongano un argine alle discriminazioni razziali.
L’America è a un bivio e le decisioni che Biden è chiamato a prendere sono complicate.
Anche perché Trump e il trumpismo sono dietro l’angolo. 
Dietro ogni angolo. 
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